Micco Spadaro, Rendimento di grazie dopo la peste del 1656
Quando nel febbraio 1656 scoppiò l’epidemia di peste, un terrorizzato Micco Spadaro bussò alla Certosa di San Martino chiedendo ospitalità ai monaci, che lo accolsero con benevolenza anche perché lo conoscevano molto bene, visto che aveva più volte lavorato per quella comunità monastica. Posizionata com’è sul punto più alto della collina del Vomero, San Martino, era completamente isolata dal contesto cittadino e per questo motivo immune dal contagio in quelle giornate infernali. Oltre all’artista i monaci avevano accolto anche il vescovo Ascanio Filomarino, che per questo si attirò tantissime critiche venendo accusato di avere abbandonato il clero e il popolo in un frangente tanto difficile. Alla fine dell’epidemia i certosini chiesero a Spadaro di realizzare un dipinto votivo, come ringraziamento alla Vergine Maria per la fine della pestilenza. Anche in questa tela, firmata e datata 1657 e considerata una delle sue migliori opere, Spadaro propone una scena gremita da diversi personaggi. In particolare, è da segnalare l’intensa espressività dei volti dei certosini, che quasi certamente furono raffigurati dal vero. L’azione si svolge in un loggiato finemente decorato da ritratti di certosini negli spicchi tra gli archi e nella parte superiore da scene di natura morta. Ispirato all’architettura del Chiostro dei procuratori della stessa certosa, il loggiato affaccia su un ampio panorama della città di Napoli, in cui è possibile distinguere il lazzaretto del Largo del Mercatello e il mare, in cui ancora affiorano i cadaveri degli appestati. In primo piano, disposti a semicerchio, vediamo i certosini genuflessi in preghiera con in prima fila sulla destra il priore Andrea Cancelliere e il cardinale Filomarino.
Gli sguardi di tutti sono rivolti verso l’alto dove appare San Bruno, il fondatore dell’ordine, che chiede l’intercessione della Vergine che, accompagnata da alcuni angeli, sta a sua volta, supplicando Gesù. Nell’angolo in alto a sinistra, su un tappeto di nuvole, anche i Santi Gennaro, Giuseppe, Ugo e Pietro stanno implorando un Cristo che sta per riporre la spada di fuoco della sua ira nei confronti degli uomini. In basso a sinistra, vicino a due appestati rappresentati da un ragazzo e da un vecchio moribondi, c’è un’allegoria della peste che è resa come una strega che irride San Martino che la sta affrontando e le impedisce di entrare nella certosa. Al centro in primo piano è tratteggiata una epigrafe in cui si ringrazia la Vergine Maria per la fine della dolorosa epidemia. In basso a destra della tela, accanto ad alcuni oggetti simbolici quali un pane spezzato, una bottiglia, un teschio e un grosso corale aperto, l’artista raffigura diversi personaggi, dei laici rifugiatisi anch’essi in San Martino, tra i quali lo storico del tempo, Bernardo De Dominici, riconosceva anche Viviano Codazzi. Oggi è noto che l’artista, grande amico di Spadaro, non poteva trovarsi a San Martino, dal momento che si era trasferito a Roma già da diversi anni. Nel gruppo, invece, è facilmente individuabile l’autoritratto di Spadaro, che si è effigiato con la mano destra sul cuore in atto di devozione e con la tavolozza e i pennelli nella mano sinistra. La pestilenza del 1656 è tristemente famosa anche perché causò la morte di diversi intellettuali e artisti, tra cui vanno ricordati Bernardo Cavallino e Aniello Falcone. Secondo alcuni storici, a causa della peste, la pittura napoletana perse addirittura una intera generazione di artisti. Micco Spadaro fu tra i pochi sopravvissuti e deve, certamente, la vita ai Certosini di San Martino che lo ospitarono per tutto il periodo della pestilenza.
Con questo post termina la pubblicazione del ciclo pittorico che Micco Spadaro dedicò agli avvenimenti nella Napoli della prima metà del Seicento. Da testimone di quegli eventi, Spadaro riuscì a rappresentare bene la drammaticità di quei momenti mettendo sempre in primo piano le sofferenze di quei napoletani che ebbero la sventura di vivere in un periodo che è stato tra più funesti nella storia della città.
Pandemia e dintorni… N. 12 del 25 giugno 2020