Il colera del 1884
“Il ventre di Napoli” di Matilde Serao, raccoglie una serie di articoli scritti in conseguenza della drammatica epidemia di colera che colpì Napoli nel 1884 e che in pochi mesi provocò la morte di circa 8000 persone.
Non è solo cronaca, non è solo folklore, ma è, soprattutto, una lucida denuncia delle disastrose condizioni di vita, del degrado e delle sofferenze delle classi popolari napoletane. Nel suo racconto la Serao, senza alcuna retorica, manifesta ammirazione per l’animo di questo popolo ma allo stesso tempo ne mette in luce anche i difetti ed evidenzia quello che, secondo lei, è il più grande dei mali, cioè l’ignoranza in cui è stato volutamente abbandonato, quasi che fosse un destino naturale e ineluttabile. Ovviamente per la scrittrice acculturare questo popolo è la prima e unica condizione per consentirne il riscatto sociale. Per questo post abbiamo scelto di far parlare la Serao perché crediamo che le sue parole siano in assoluto molto più efficaci di qualsiasi altra considerazione e, con l’occasione, invitiamo tutti a leggere o rileggere “Il ventre di Napoli”, un testo che dopo più di un secolo, è validissimo e per certi aspetti, purtroppo, ancora attuale.
“Eppure la gente che abita in questi quattro quartieri popolari, senz’aria, senza luce, senza igiene, disguazzando nei ruscelli, neri, scavalcando monti d’immondizie, respirando miasmi e bevendo un’acqua corrotta, non è una gente bestiale, selvaggia, oziosa; non è tetra nella fede, non è cupa nel vizio, non è collerica nella sventura. Questo popolo, per sua naturale gentilezza, ama le case bianche e le colline: onde il giorno di Ognissanti quando, da Napoli, tutta la gente buona porta corone ai morti, sul colle di Poggioreale, in quel cimitero pieno di fiori, di uccelli, di profumi, di marmi, vi è chi l’ha intesa gentilmente esclamare: o Gesù, vurria murì, pe sta ccà! Questo popolo ama i colori allegri, esso che adorna di nappe e nappine i cavalli dei carri, che si adorna di pennacchietti multicolori nei giorni di festa, che porta i fazzoletti scarlatti al collo, che mette un pomodoro sopra un sacco di farina, per ottenere un effetto pittorico e che ha creato un monumento di ottoni scintillanti, di legni dipinti, di limoni fragranti, di bicchieri e di bottiglie, un monumentino che è una festa degli occhi: il banco dell’acquaiuolo. Questo popolo che ama la musica e la fa, che canta così amorosamente e così malinconiosamente, tanto che le sue canzoni danno uno struggimento al core e sono la più invincibile nostalgia per colui che è lontano, ha una sentimentalità espansiva, che si diffonde nell’armonia musicale. Non è dunque una razza di animali, che si compiace del suo fango: non è dunque una razza inferiore che presceglie l’orrido fra il brutto e cerca volenterosa il sudiciume; non si merita la sorte che le cose gl’impongono; saprebbe apprezzare la civiltà, visto che quella pochina elargitagli, se l’ha subito assimilata, meriterebbe di esser felice”.
Matilde Serao (1856-1927), nasce a Patrasso da madre greca di famiglia nobile decaduta e da un avvocato napoletano riparato in Grecia per sfuggire alle persecuzioni borboniche. Prima di dedicarsi al giornalismo lavorò ai Telefoni di Stato. È la prima donna redattrice al “Capitan Fracassa” di Roma, è anche la prima italiana ad aver fondato e diretto dei giornali, tra i quali ricordiamo “Il Giorno” e, insieme al marito Edoardo Scarfoglio, quello che poi diventerà il maggiore quotidiano del Meridione “Il Mattino” di Napoli. Oltre a “Il ventre di Napoli”, della vasta produzione della Serao ricordiamo “Il paese di cuccagna” e “Sterminator Vesevo. Diario dell’eruzione aprile 1906”. È stata più volte candidata al Premio Nobel per la letteratura.
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Si racconta che il Re Umberto I avrebbe dovuto presenziare all’inaugurazione di una nuova fabbrica a Pordenone, informato dell’epidemia di colera fece inviare un telegramma alle autorità della città friulana, per giustificare la sua assenza, con il seguente testo “A Pordenone si fa festa, a Napoli si muore: vado a Napoli”
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Agostino Depretis era il Presidente del Consiglio nel 1884. “Bisogna sventrare Napoli” è la sua frase passata alla storia come soluzione per risolvere i problemi napoletani, a cui Matilde Serao rispose a tono: “Efficace la frase. Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il governo e il governo deve saper tutto. Non sono fatte pel Governo, certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto, delle signore incantevoli e dei vapori violetti del tramonto; tutta questa retorichetta a base di golfo e colline fiorite, di cui noi abbiamo già fatto e oggi continuiamo a fare ammenda onorevole, serve per quella parte del pubblico che non vuole essere seccata con racconti di miserie”. Foto wikipedia.org
Axel Munthe, medico e scrittore svedese, è uno dei protagonisti delle drammatiche giornate del 1884. Arrivato in Italia nel 1876 rimase affascinato dall’isola di Capri al punto da farsi costruire, ad Anacapri, una villa chiamata San Michele e dove trascorse buona parte della sua vita. Venuto a conoscenza dell’epidemia, nel corso di un viaggio in Lapponia, non esitò a partire subito per Napoli. Pur essendo un uomo dell’alta borghesia, medico personale di nobili e della regina Victoria di Svezia, visse in mezzo al popolo napoletano prodigandosi con tutte le sue forze per prestare soccorso agli ammalati. Ripercorrerà questa sua esperienza in una serie di corrispondenze con un giornale svedese che intitolerà “La città dolente”. Identica abnegazione dimostrò nel corso di una epidemia di tifo a Capri e nel soccorso ai terremotati di Casamicciola e Messina.
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Pandemia e dintorni… N 13 del 30 luglio 2020